Avvento = attesa, ma attendere è un ‘peccato’. “Non bisogna attendere”, dice la pubblicità di un telefonino, perché “ora devo dire, ora devo comunicare, ora devo avere, ora devo soddisfare…”. E tutti a correre, a scrivere sms, a mandare l’ultimo video, ad affrettarsi per strada con il cellulare in mano, a schiacciare un tasto per le ultime notizie, a comprare l’ultima novità, a riempirsi con l’ultima banalità gettata furbescamente sul mercato degli allocchi.
“Che tempo farà?” “Te lo dico subito”…e via con l’ennesimo clic, senza più guardare neppure il cielo, gli alberi, senza ascoltare il vento.
L’attesa è snervante, l’attesa è triste, l’attesa mi deprime…l’attesa è un ‘peccato’!
Attendere è assumere il vuoto, l’incompiutezza umana, la fragilità creaturale. Attendere è fare spazio al desiderio di pienezza che agita il nostro cuore, che ascoltare in silenzio che venga alla luce. Qualcuno ha detto che “attendere è voce del verbo amare”, ed ha pienamente ragione.
Ma se non si sa e non si vuole più attendere, il cuore si riempirà con qualsiasi cosa, l’anima diventerà una discarica di rifiuti e l’attesa verrà soffocata da mille cose inutili.
Se non impariamo a convivere con la fame che viene dal profondo, fame di pienezza e di vita vera, senza volerla riempire a tutti i costi con qualcosa, la nostra esistenza sarà un aborto continuo, perché berremo a tutte le pozzanghere che troveremo sulla strada senza mai scavare, pazientemente, il pozzo dell’acqua viva.
Se non impariamo ad attendere, la speranza morirà e con lei “Colui che viene”, il Dio della vita, che, ancora una volta, non troverà casa per essere accolto ed emigrerà nelle “periferie”, alla ricerca di una capanna per riscaldarsi.
Ma noi non siamo il popolo che si riunisce in assemblea santa e, spezzando il Pane e la Parola, proclama solennemente: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta”?
Noi credenti che ogni giorno accettiamo la sfida della fede e scommettiamo sull’amore fedele di Dio amante, non siamo la sposa che cerca continuamente il suo Sposo, e nell’esperienza della sua continua presenza /assenza grida: “Maranathà! Vieni, Signore Gesù”?
Noi, carichi di speranza, non viviamo forse della certezza che Lui è il Signore che è venuto, che viene e che verrà sempre?
Ricordiamo quanto ci suggerisce il profeta Isaia: “Tu vai incontro a coloro che ricordano le tue vie, perché tu sei nostro Padre e noi siamo opera delle tue mani!”.
O, come dice il poeta, accogliamo il grido che viene dal cuore, e diciamo:
“Io desidero te, soltanto te. Il mio cuore lo ripeta senza fine.
Sono falsi e vuoti i desideri che continuamente mi distolgono da te.
Come la notte nell’oscurità cela il desiderio della luce,
così nella profondità dalla mia incoscienza risuona questo grido: ”io desidero te, soltanto te”.
Come la tempesta cerca fine nella pace, anche se lotta contro la pace con tutta la sua furia,
così la mia ribellione lotta contro il tuo amore, eppure grida: ”io desidero te, soltanto te”.
(R. Tagore)
Il cristiano deve uscire dalla cronaca per immergersi nella storia: imparare ad attendere e assumere i suoi limiti, i suoi vuoti, perché sa che Qualcuno li ha già assunti e redenti. Il cristiano sa che il suo Dio ha squarciato i cieli e viene a visitarci, per prendere dimora tra di noi. Il cristiano non dimentica di essere una sentinella e un soldato che veglia nella notte, che non dorme e non vuole farsi ‘sedare’ dalle tante proposte incantatrici del mercato.
Egli veglia nell’attesa della sua venuta. Maranathà, vieni, Signore Gesù.